New insights into food protein-induced enterocolitis in childre

Commento a cura di Rossella Giorgio 1, Carla Mastrorilli 1, Michela Procaccianti 2, Angelica Santoro 3

1 UO Pediatria e Pronto Soccorso, Ospedale Pediatrico Giovanni XXIII, Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico, Bari; 2 Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Clinica Pediatrica, Università degli Studi di Parma; 3 UO Pediatria, Dipartimento di Ostetricia-Ginecologia e Pediatria, Arcispedale Santa Maria Nuova-IRCCS, Reggio Emilia

L’enterocolite allergica (food protein-induced enterocolitis syndrome, FPIES) rappresenta una forma di allergia alimentare non IgE-mediata con esordio generalmente nel primo anno di vita, benché siano stati segnalati casi più tardivi. Clinicamente la FPIES può essere classificata in due differenti fenotipi: acuto e cronico. La FPIES acuta si manifesta con vomito incoercibile dopo circa 1-4 ore dall’assunzione dell’alimento sospetto, che può essere seguito da diarrea e associato a letargia, ipotonia, ipotensione, ipotermia e squilibri metabolici. Va considerato che un attacco acuto di FPIES può trasformarsi in una emergenza medica evolvendo in shock ipovolemico nel 15% dei casi. La FPIES cronica si manifesta con diarrea persistente, scarso accrescimento, ipoalbuminemia o episodi acuti ricorrenti; è tipica nei bambini con età inferiore a 4 mesi dopo esposizione ripetuta ai cibi incriminati. Gli alimenti trigger di FPIES più frequenti sono latte vaccino, latte di soia e cerali e i pazienti possono avere uno o più alimenti trigger, con variazioni in base alle abitudini alimentari (es. FPIES causata da pesce in Italia e Spagna). Il meccanismo patogenetico alla base della FPIES è ancora poco chiaro. Secondo alcuni studi, il disturbo sarebbe causato da un’infiammazione locale indotta dalle proteine dell’alimento trigger, che determina un aumento della permeabilità intestinale con passaggio di liquidi intraluminale. Recenti lavori hanno evidenziato il ruolo delle cellule T nella patogenesi della FPIES, in particolare dei linfociti Th2 responsabili della produzione citochinica e dei linfociti T regolatori nell’acquisizione della tolleranza, ma tali dati devono essere ancora confermati. La diagnosi di FPIES è clinica e spesso viene posta con notevole ritardo sia per la ridotta consapevolezza della malattia sia per l’assenza di sintomi patognomonici. Recentemente, sono stati presentati nuovi criteri diagnostici per la FPIES acuta basati su un sistema di criteri maggiori e minori, come mostrato in Tabella I. Al contrario, non vi sono criteri diagnostici per la FPIES cronica. Attualmente non sono disponibili test di laboratorio specifici per la diagnosi di FPIES. Nella forma acuta, si osservano comunemente neutrofilia (≥ 1500/mL), con picco 6 ore dopo l’ingestione, trombocitosi nel 65% dei casi, incremento della calprotectina fecale e talvolta lieve aumento della proteina C reattiva. Le attuali linee guida non raccomandano esami radiologici o endoscopici nel work-up diagnostico benché utili nella diagnostica differenziale. I prick test cutanei sono negativi nella maggior parte dei casi (cosiddetta forma tipica) e il dosaggio delle IgE specifiche andrebbe preso in considerazione prima di eseguire un challenge orale per escludere una possibile conversione in un’allergia alimentare IgE-mediata. Il gold-standard diagnostico della FPIES è rappresentato dal test di provocazione orale (TPO), necessario in caso di storia clinica dubbia e utile per valutare lo sviluppo della tolleranza nei confronti dell’alimento incriminato. Sono stati proposti diversi protocolli per TPO, tuttavia mancano studi sistematici su dose totale e regimi posologici di esecuzione. La gestione della FPIES comprende una terapia di fase acuta e una terapia di mantenimento per prevenire nuovi episodi e carenze nutrizionali. Il trattamento dell’episodio acuto è rappresentato dall’idratazione per via orale o endovenosa in base alla gravità dell’attacco. Nelle reazioni gravi possono essere necessarie terapie supplementari (es. ossigeno di supporto per distress respiratorio, bicarbonato per acidemia, blu di metilene per metaemoglinemia o vasopressori per ipotensione). Nella gestione dell’emesi acuta, l’ondansetron rappresenta un trattamento efficace (somministrabile nei bambini di età superiore ai 6 mesi), perché ne riduce la durata e la gravità. Nonostante l’uso di ondansetron appaia molto promettente, mancano ancora studi di controllo randomizzati. L’uso di corticosteroidi non è sufficientemente supportato dagli studi, sebbene sia di comune utilizzo nella pratica clinica. Il caposaldo della gestione a lungo termine della FPIES è rappresentato dall’eliminazione dell’alimento trigger. Per i bambini allattati al seno di solito non è consigliata l’eliminazione dalla dieta materna dell’alimento sospetto, a meno che non si tratti di allattamento materno esclusivo. Per i neonati con FPIES da latte vaccino può essere consigliata una formula estesamente idrolizzata. Poiché il rischio di reattività sia alla soia che al latte è segnalato nel 20-40% dei casi negli Stati Uniti, sebbene vari da paese a paese, è indicato introdurre latte di soia sotto controllo medico. Bambini con FPIES da latte di soia o vaccino potrebbero presentare un rischio aumentato di reazione a cibi solidi, ciò nonostante non è indicato ritardare il tempo di divezzamento oltre il 6° mese di vita. Per l’introduzione di alimenti “a rischio” quali cereali, legumi e pollame, è indicato eseguire un TPO in regime ospedaliero. Poiché la storia naturale della FPIES varia a seconda dell’allergene coinvolto, del paese di origine e della gravità della reazione iniziale, i bambini dovrebbero periodicamente eseguire TPO per valutare la persistenza dell’allergia. La tempistica riguardo il challenge orale è ancora dibattuta. Alcuni studi considerano il TPO per gli alimenti più comuni (latte vaccino, riso, uova) entro i 18-24 mesi di vita; per gli altri allergeni si può attendere anche i 5 anni con acquisizione di tolleranza ritardata. Il TPO deve essere eseguito almeno 12-18 mesi dopo l’ultima reazione.

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